Livia Artuffo
Livia Artuffo (Milano, 1957) vive in mezzo ai suoi libri, tra Piacenza e le dolci colline della sua provincia. La lettura è la passione a cui ha potuto dedicare l’ultima fase della sua vita, dopo gli anni riservati agli studi economici, all’attività editoriale e alla famiglia. Recuperando un antico interesse giovanile, si è immersa nei testi delle antiche tragedie greche e ne ha esplorato le riscritture. Ne sono nati due saggi, pubblicati da Abel Paper: Antigone, amore mio (2021) e Rapsodia di Elettra (2022), entrambi finalisti nelle rispettive edizioni del Premio Letterario Nabokov.
L’affondo su Kafka qui presentato è una deviazione di percorso solo apparente: Kafka e i tragici greci hanno davvero molto in comune…
INTERVISTA ALL'AUTORE
Cosa ti ha spinto a scrivere questo saggio?
Da alcuni anni i miei interessi si concentrano sulla tragedia greca e le sue rivisitazioni moderne. Occuparmi di Kafka è stata una deviazione di percorso solo apparente.
In fondo non ho fatto che spostare di duemila e quattrocento anni l’orizzonte temporale della mia ricerca. Quella di Kafka è infatti mitologia ricollocata in ambiente borghese – mitologia classica aggiornata, arricchita da elementi di ispirazione ebraica e dalla carica innovativa del primo Novecento, una delle stagioni più fertili della storia della letteratura. L’intreccio di realtà ed elementi fantastici, l’inserimento del prodigioso entro i confini dell’esperienza ordinaria, la permeabilità tra dimensione umana e regno animale contraddistinguono sia l’universo kafkiano che quello dei miti che fanno da sfondo alla tragedia greca. La percezione dell’enigmaticità della vita, lo scetticismo teologico accompagnato a una visione della condizione umana in balia di forze incontrollabili e insensibili, l’idea della Grande Beffa come chiave di lettura dell’esistenza: tutto questo appartiene al mondo di Euripide quanto a quello di Kafka.
Avevo già una massa di appunti, frutto di letture fatte qualche anno fa. Ma ad ogni rilettura delle pagine di Kafka ho scoperto qualcosa di nuovo. E così mi sono messa a scrivere per entrare nelle pieghe delle sue narrazioni, per fissarle nella mia memoria, per ragionarci su.
Quali sono state le tue influenze principali durante la stesura del saggio?
Un saggio che è stato fondamentale nella mia ricerca è quello che Roberto Calasso ha dedicato a Kafka nel 2002. Lo sguardo di Calasso è quello di un profondo conoscitore del mito classico (ricordiamo il suo indimenticabile Le nozze di Cadmo e Armonia): è quello sguardo che ho cercato di fare anche mio.
Anche il lavoro di Pietro Citati mi è stato di guida. Citati ha raccontato al grande pubblico la Grande Letteratura, ma ha anche inventato un nuovo modo di fare letteratura attraverso la letteratura degli altri. Non ci restituisce il prodotto di un autore, ma l’autore stesso. Il suo Kafka del 1987 mi ha fatto entrare in confidenza con Kafka, me lo ha fatto vedere come persona, mi ha indotto a guardarlo con affetto. E mi ha offerto anche un modello di scrittura, un bell’esempio su come coniugare analisi critica del testo, ricerca storico-biografica e divulgazione.
Devo molto anche a L’altro processo di Elias Canetti, il saggio del 1967 dedicato all’epistolario tra Kafka e la sua prima fidanzata, Felice Bauer: che è acuta ricostruzione di una vicenda privata e insieme analisi critica della produzione letteraria di Kafka in quegli anni cruciali.
Devo poi citare due grandi romanzieri scomparsi negli ultimi anni, che ho sempre seguito da lettrice appassionata: Philip Roth e Milan Kundera. È a Roth che devo il primo stimolo a riprendere in mano Kafka, autore-feticcio che più volte fa capolino nei suoi romanzi. In particolare, è il libro di Roth del ‘73 intitolato Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero guardando Kafka che mi ha spinto ad affrontare i Racconti di Kafka, vincendo la diffidenza che mi avevano sempre ispirato. L’ammirazione di Roth per Kafka è contagiosa: così mi ci sono messa di impegno… e mi si è aperto un mondo.
Kundera parla di Kafka due volte: nel suo I testamenti traditi (1993) e in L’arte del romanzo (2003). In entrambi i casi è illuminante. Nel primo saggio ci insegna a liberarci dalla lettura agiografica di Kafka inaugurata da Max Brod (nonché da quella tutta teologica, o tutta psicoanalitica, o tutta politica). Nel secondo, ci offre una formidabile chiave di lettura delle sue opere: Kafka, scrive Kundera, “ci fa entrare nelle viscere di una barzelletta, dentro l’orrore del comico”. E questo è davvero illuminante.
Altri tre saggi imprescindibili, per me, sono stati anche quelli di Walter Benjamin (Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte), di Theodor Adorno (Appunti su Kafka, scritto tra il 1942 e il 1953) e di Günther Anders (Kafka: Pro e contro, 1951). Ho attinto molto da loro e su molti spunti sto ancora riflettendo.
Tre ultime citazioni, estratte dall’immensa bibliografia su Kafka in cui ho spesso creduto di smarrirmi: Giuliano Baioni (Kafka, letteratura ed ebraismo), indispensabile per cogliere i riferimenti alla cultura ebraica che Kafka occulta abilmente nella sua prosa, e Remo Cantoni, con la sua bellissima prefazione all’edizione Mondadori de Il castello del1949. E poi il grande Nabokov, il maestro dell’arte della ri-lettura, che mi ha condotta per mano tra le righe del racconto più famoso di Kafka, La metamorfosi.
Ah, no, dimenticavo David Foster Wallace. Le sue Considerazioni sulla comicità di Kafka (in Considera l’Aragosta, Einaudi 2005) sono spassose e rivelatrici. Non ho potuto fare a meno di richiamarle nel mio saggio.
Come hai deciso il titolo del saggio?
Inizialmente volevo intitolare il mio saggio “La grande beffa”, idea che mi pareva condensasse la visione kafkiana della vita. Ma poi ho pensato che un autore così difficilmente interpretabile non potesse essere ingabbiato sotto un titolo a tesi. E così ho ripiegato sul più modesto “Appunti su Kafka” che vuole essere anche un omaggio agli “Appunti su Kafka” di Theodor Adorno. Ci ho aggiunto “per lettori recidivi” per due motivi: perché, come ha scritto Nabokov, “Non si legge un libro: un libro lo si può solo rileggere”; e perché, accordandoci alla sensibilità di Kafka, la rilettura è in qualche modo la reiterazione di una “colpa” – una fuga dal mondo e dalle responsabilità reali. “Lo scrivere è un dolce, meraviglioso compenso, ma per cosa?”, scrive Kafka a Max Brod. “È un compenso per un servizio del diavolo”, si risponde. Ma se Kafka è “colpevole”, allora lo siamo anche noi che lo leggiamo e rileggiamo: colpevoli e recidivi.
C’è un capitolo o una sezione che ti sta particolarmente a cuore?
Direi la sezione che ho intitolato “Punizioni”, in cui parlo dei tre maggiori racconti pubblicati in vita da Kafka: La condanna, La metamorfosi e Nella colonia penale. Si tratta di racconti molto noti, sui quali sono stati versati fiumi di inchiostro, generalmente centrati sul sottostante senso di colpa dell’autore, sempre considerato all’origine della sua scrittura. Io vi ho colto molti elementi di ironia e - soprattutto - di autoironia: più che un’autoflagellazione, questi racconti mi sono sembrati autocritici e “liberatori”. A differenza di tanti scritti che non pubblicò e che desiderò bruciare, di questi Kafka fu relativamente soddisfatto: non perché li considerasse uno sfogo del proprio vittimismo, ma, al contrario, perché erano un atto di rivolta contro quel vittimismo. Sono splendidi racconti di denuncia: delle aberrazioni della famiglia borghese, dell’autoritarismo dei padri, della violenza aziendale, del fanatismo bellicista. E al contempo sono la rivolta di un uomo profondamente angosciato contro le proprie stesse paure.
Cosa speri che i lettori portino con sé dopo aver letto il tuo saggio?
I lettori di Kafka sono milioni. Tra questi, moltissimi sono i ri-lettori e molti i lettori delle riflessioni di altri lettori: è una comunità sterminata che annovera gente comune, bravi scrittori e grandi pensatori. Scrivendo questo saggio, mi sono sentita parte di un gigantesco “club del libro”, un forum mondiale e intertemporale. Mi è sembrato di dialogare con tanti Grandi del Novecento, con i miei romanzieri preferiti, con diverse menti brillanti. Il mio contributo non è che una briciola. Ma spero stimoli l’appetito di chi avrà voglia di leggermi.
SAGGIO FINALISTA PREMIO NABOKOV 2023
Appunti su Kafka
(Sinossi)
Leggere Kafka è un’avventura impegnativa: dalla prima riga ci costringe a interrogare il testo, che resta sempre enigmatico e sfuggente.
Kafka “ha preso tutte le misure possibili contro l’interpretazione dei propri testi” avvertiva Walter Benjamin. “Ogni proposizione dice: interpretami, ma nessuna tollera l’interpretazione”, scriveva Theodor Adorno. “Si tratta di parabole a cui è stata sottratta la chiave”, annotava nei suoi Appunti su Kafka, scritti verso la metà del secolo scorso.
Ciononostante, le migliori menti del Novecento, insieme a una folla di critici, filosofi, letterati e lettori qualunque, si sono arrovellate sui testi di questo grande scrittore che in vita aveva pubblicato pochissimo. E ancora oggi fioccano studi, analisi e forum di discussione.
Perché Kafka ha questo di straordinario: non solo ci avviluppa nelle sue singole storie, non solo ci folgora con i suoi aforismi, ci sconcerta con le sue parabole, ci distrae con le sue trovate comiche e ci punzecchia con il suo umorismo nero, ma ci fa sentire i destinatari privilegiati di un messaggio cifrato, nascosto tra le righe dei suoi racconti-rompicapo.
Questi nuovi Appunti su Kafka esplorano il mondo letterario e intimo di Franz Kafka spaziando tra romanzi, racconti, diari e raccolte epistolari con l’ostinazione di chi non si accontenta di una prima lettura: un invito per tutti a scoprire o a riscoprire pagine scritte cent’anni fa che ancora ci illuminano sul nostro presente.
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